Avete mai pensato di lavorare da architetti nel campo del retail e della moda? Ne ho parlato con Samuele Brianza, che mi ha raccontato la sua esperienza da Milano a New York, passando da Dordoni Architetti, Giorgio Armani e Diane Von Fürstenberg (e che io ho conosciuto da giovane e brillante studente di architettura al Politecnico di Milano)
“Di che cosa si occupa un architetto che lavora nel mondo della moda e del retail?”
Certamente il primo impegno per un architetto che lavora nel campo del retail è rivolto alle attività per l’apertura di nuovi punti vendita del brand per il quale lavora. Partendo dallo store concept – l’idea progettuale iniziale dettata dalla filosofia aziendale – si troverà a declinarlo sia nella progettazione di negozi nuovi, sia nel rifacimento di spazi già esistenti.
A seconda del ruolo che si trova a ricoprire nell’azienda, si occuperà del pilot del progetto oppure dello sviluppo del disegno esecutivo e ancora dei render di riferimento. Una volta definito e approvato il progetto, dovrà prendere contatto con i fornitori, seguire tutti gli aspetti economici nel rispetto del budget stabilito, e arrivare così al lavoro di cantiere, che può essere seguito direttamente sul posto oppure in remoto dall’ufficio.
Poi ci sono gli eventi speciali, per esempio le sfilate o altre serate particolari. In questo caso l’idea viene dalla collezione che si deve presentare: l’architetto farà una mood board progettuale e in tempo brevissimo svilupperà il progetto.
Le tempistiche di queste due attività sono ovviamente molto diverse: per un negozio, a seconda delle dimensioni, si può parlare di tre-nove mesi, per un evento si lavora magari per tre settimane molto intense in vista di uno “spettacolo” che magari dura solo un giorno o persino poche ore.
È un lavoro stressante, ma anche divertente. Tutto deve essere perfetto, ma spesso si tratta più di una perfezione di facciata, giusto per il tempo dello scatto di un servizio fotografico. Non ci sono certamente i tempi per avere un approccio al dettaglio di tipo architettonico.
“Tu come sei arrivato a lavorare in questo campo?”
Un paio d’anni dopo la laurea ho iniziato a lavorare per lo studio Dordoni e lì mi sono ritrovato a lavorare nel gruppo che si occupava di retail. In poco tempo è diventata una sorta di specializzazione che mi ha portato a lavorare per brand quali Dolce & Gabbana e La Rinascente.
Per La Rinascente, in particolare, ho collaborato al restyling delle gallerie del secondo piano, e in quella occasione ho avuto l’opportunità di interfacciarmi con gli studi tecnici dei principali brand di alta moda. È stata un’esperienza fondamentale, anche perché è da lì che sono nati i contatti che mi hanno portato alla successiva collaborazione, quella con Giorgio Armani, durata ben sette anni.
Il gruppo Armani era alla ricerca di un architetto e una persona che avevo incontrato durante il lavoro per Rinascente ha pensato a me. Dopo sette colloqui sono entrato nel loro team e sono rimasto con loro fino al mio trasferimento a New York.
“Come è andato questo repentino cambiamento di vita?”
Per me all’inizio non è stato facile. Vivere all’estero era un’esperienza che mi ero prefissato di fare e quando ho sentito che era arrivato il momento di un cambiamento, dopo i sette anni con il gruppo Armani, avevo pensato di cambiare città, continuando a lavorare per loro, oppure di cambiare lavoro, ma restando a Milano, in modo che l’esperienza non fosse troppo impegnativa.
Poi quando mi è arrivata la proposta di lavorare a New York per Diane Von Fürstenberg non ci ho pensato due volte e, forse con un po’ di inconsapevolezza, sono partito sulla scia dell’entusiasmo.
Cambiare lavoro e contemporaneamente trasferirsi dall’altra parte del mondo è un’esperienza molto forte. Quando sono arrivato non conoscevo nessuno, avevo solo contatti di tipo lavorativo. Era inverno e ho passato le prime settimane in un hotel. In più sentivo di dover dimostrare molto sul lavoro: ai miei nuovi capi e colleghi di essere la persona giusta, a me stesso di aver fatto la scelta migliore.
Poi piano piano sono riuscito a trovare una mia dimensione.
“Vivere a New York è come ce lo immaginiamo dai film?”
A livello superficiale lo sembra perché la città è davvero molto accogliente quando la vivi da turista. È una città incredibile ed estremamente fotogenica, persino nelle sue parti “brutte”. Se sei un architetto ti fermeresti a scattare una foto ad ogni angolo di strada.
La verità è che è una città immensa e tutti sembrano sempre super impegnati: in un paragone che non regge si potrebbe dire che è una Milano all’ennesima potenza.
Per trovare casa mi sono concentrato sul West Village, per i suoi caratteristici edifici bassi e la sua atmosfera da quartiere. Ho ricominciato ad andare a fare la spesa sempre negli stessi posti, a frequentare gli stessi bar e negozi, e così ho potuto ricrearmi una rete di relazioni di vicinato. Ne avevo bisogno perché in generale la città è talmente ricca di stimoli che persino fare la spesa per chi non è abituato diventa un’impresa difficile.
Per lo stesso motivo – questo bombardamento di impulsi di ogni tipo – anche al lavoro mi sembrava di impiegare tre volte il tempo di prima per attività che ho sempre svolto.
“Quali differenze hai sperimentato nel mondo del lavoro?”
Il lavoro in sé non posso dire che sia differente, il settore moda ha degli aspetti caratteristici che si ripetono allo stesso modo anche in paesi diversi, con tempistiche simili. Ad essere differenti sono forse le dinamiche fra colleghi, oltre ovviamente al fatto di essere sempre settato su una lingua che non è la mia lingua madre.
Inoltre le due aziende – Armani, dalla quale provenivo, e Diane Von Fürstenberg, quella attuale – non potrebbero essere più diverse, seppure entrambe entusiasmanti. Da una parte un gruppo gigantesco, una gestione maschile, uno stile minimalista. Dall’altra un’azienda a confronto più contenuta, con un’impronta decisamente femminile, e anzi con tematiche legate al femminismo, oltre ad uno stile esuberante, a volte naïf.
La fase di adattamento iniziale è stata faticosa, ma poi mi sono reso conto che tutto si risolve in un do ut des: io ho imparato moltissimo da loro e sono maturato, ma allo stesso tempo ho dato il mio supporto per riorganizzare alcuni aspetti del lavoro sulla base della mia precedente esperienza. Sono certo che nel mio prossimo impiego questa esperienza darà ulteriormente i suoi frutti.
“Qual è il tuo ruolo e in che cosa consiste il tuo lavoro?”
Quando lavoravo in Italia per Armani la mia figura veniva definita Head of Store Development, ed era infatti più centrata sull’apertura di nuovi negozi in Europa e nel mondo. Qui da Diane Von Fürstenberg sono invece Senior Director Store Designer Architecture, un ruolo maggiormente legato alla progettazione di spazi o eventi studiati e realizzati ad hoc.
In una giornata tipo in genere devo coordinare il team di lavoro, partecipare a varie riunioni, e poi ho continue chiamate con i fornitori e con la nostra sede di Londra, che segue tutto l’ambito europeo.
Per Armani invece ho collaborato all’apertura di circa 1500 punti vendita in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’estremo Oriente, e quindi viaggiavo molto più spesso, anche per raggiungere i moltissimi uffici tecnici siti nelle varie città o per effettuare il controllo qualità sui negozi.
Nel retail – se si escludono negozi ed eventi speciali – si può dire che ci sia una certa standardizzazione del lavoro, dettata sia dalla volontà di rispettare un budget prestabilito restando nei tempi, sia dalla necessità di firmare dei contratti quadro con i fornitori, che devono essere sempre pronti e che quindi devono già sapere che cosa ci si aspetta da loro.
“Cosa sta cambiando nel sistema moda?”
L’esponenziale aumento degli acquisti online sta inevitabilmente cambiando anche il mondo dei negozi dei brand di alta moda. Cambia completamente la user experience, quindi per continuare a portare i clienti nei negozi fisici è fondamentale offrirgli qualcosa di più, garantirgli un’esperienza che non dimenticheranno, e dare al punto vendita un tocco speciale. Non è per niente semplice perché allo stesso tempo il budget che viene destinato alla realizzazione di negozi si è notevolmente ridotto, e se ci si pone l’obiettivo di mantenere comunque un livello alto, la fase progettuale diventa una sfida sempre più difficile, ma anche stimolante. Tutti i brand di alta moda comunque stanno mantenendo un approccio molto più cauto, non possono più essere investite le cifre di dieci anni fa.
“Cosa diresti ad un neolaureato in architettura che vuole lavorare nel retail o nella moda?”
Che questo è certamente un momento particolare, sia in senso positivo sia negativo, e che sapersi destreggiare nel settore digitale è fondamentale anche in questo campo.
Per quanto riguarda il retail, è vero che ci sono meno aperture di negozi, ma quelli che aprono hanno una qualità del tutto diversa, c’è sempre meno standardizzazione e sempre più attenzione al dettaglio. Questo garantisce delle possibilità di lavoro molto più interessanti, ma certamente meno frequenti.
Se si è interessati alla moda, suggerirei certamente di specializzarsi nel campo della progettazione e organizzazione di eventi e di tutto ciò che è temporaneo. In seconda battuta suggerirei il retail e l’interior design, con uno sguardo attento a tutti i nuovi media di comunicazione, compresi social network come Instagram.
“Esiste ancora il mito dell’Italia negli Stati Uniti? Come viene visto un italiano a New York?”
Il mito dell’Italia in America è sempre vivo. Hanno proprio un debole per noi, sarà l’accento, sarà la cucina, ma il Bel Paese è ancora visto in modo mitico e idealizzato. Posso dire che in un certo senso siamo visti come persone esotiche, e l’impressione a volte è di essere presi poco sul serio: l’italiano è il creativo, imprevedibile, ritardatario, naïf, poco affidabile, al quale però si perdona tutto proprio in quanto italiano. In campo lavorativo però posso dire che non sia così, almeno nella mia esperienza personale: e il fatto che io provenga da Milano poi gioca a mio favore perché nel mio campo è una città intrinsecamente legata a moda e design, quindi per loro una garanzia.
“Quali sono i tuoi obiettivi futuri?”
Appena arrivato qui, superata la fase iniziale, pensavo che non me ne sarei mai più andato, ma a distanza di due anni posso dire che mi rendo conto sempre di più di quanto sia speciale il nostro paese, il nostro modo di vivere e le relazioni fra le persone. Sembra una frase fatta, ma penso che quasi tutti coloro che abbiano vissuto all’estero per un lungo periodo sappiano di cosa sto parlando.
Ora quindi mi trovo in un limbo perché l’esperienza qui a New York è straordinaria, e certamente voglio portarla avanti ancora, ma inizio a sentire qualche richiamo ad un possibile riavvicinamento a casa nel medio periodo. Però mi chiedo: se tornassi a Milano, la città mi sembrerebbe ormai troppo piccola? Forse una scelta intermedia come Londra o Parigi potrebbe essere la giusta risposta. Quindi se dovessi ricevere una proposta di lavoro in questo senso la prenderei in considerazione, ma dovrebbe essere davvero interessante per tenere testa a Diane von Fürstenberg e a New York.
Se ti va di conoscere un’altra esperienza di lavoro negli Stati Uniti, leggi qui.
Se invece vuoi leggere di un architetto che lavora nel mondo degli allestimenti e degli eventi, leggi qui.
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